STORIA DEL TERRITORIO DI ORTONA DEI MARSI, CURATA DA DE MATTEIS REMO
( Resp. Archivio Storico del Comune)
- La Preistoria -
La Marsica, nella preistoria, è stata certamente una regione popolata. Diversi resti, ritrovati nelle zone rivierasche dell'ex lago Fucino, testimoniano la presenza dell'uomo fin dall'era della pietra. Non ci ha sorpreso, pertanto, l'aver visto delle pietre lavorate, risalenti al Neolitico, raccolte da qualche amatore anche nella Valle del Giovenco, specialmente nella campagna di Carrito, di Rivoli e di Cesoli. D'altra parte sembra naturale che gli uomini più antichi si siano stabiliti in questi luoghi, allora molto fertilii e con un clima piuttosto temperato a causa delle acque dell'antico lago, come dimostrano i recenti rinvenimenti, nel centro abitato di Ortona, di resti archeologici afferenti ad una muratura in opera poligonale e con restituzione di materiali databili dal IX - VIII secolo a.C. al II secolo a.C. e I secolo. Di quest'epoca, è ovvio, possiamo dire poco, poiché, al di fuori dei resti che è possibile rintracciare, non abbiamo altre testimonianze. Anzi per arrivare alla storia del nostro popolo dobbiamo attendere gli ultimi secoli prima della nascita di Cristo. La stessa origine delle culture umane in tutta l'Italia è oggetto di congetture e di ipotesi, entro le quali possiamo considerare anche le origini del popolo Marso, che è fra i più antichi ed originali.
I MARSI facevano parte del gruppo etnico italico e, più propriamente sabellico, che si estendeva per tutta l'Italia Centrale, sulla dorsale appenninica orientale, declinante dai monti umbri ai lucani verso l'Adriatico.
Secondo le più attendibili ipotesi degli studiosi della materia, i Marsi avrebbero avuto origine dall'incontro di due popoli italici : gli Umbri e gli Osci. I primi, premendo verso Sud sull'Appennino, si sarebbero sovrapposti ai secondi, dando luogo al formarsi delle tribù di tipo umbro-osco, chiamate Sabelliche, distinte con i nomi di Vestini, Peligni, Maruccini, Marsi.
Il gruppo etnico dei Marsi ha lasciato molti resti attribuibili all'età del ferro (età che precede immediatamente il periodo storico propriamente detto: per noi fino al V-IV secolo a.C.): lance a cannone, attrezzi agricoli, ceramiche, tombe, ecc..
Noi abbiamo potuto vedere una ceramica risalente a quest'epoca, ritrovata recentemente nella campagna di Carrito.
Abbiamo anche sentito parlare spesso dai contadini di tombe ritrovate nella zona dei fiume Giovenco e sulla via che porta alla frazione Santa Maria Maddalena del Comune di Ortona dei Marsi: si tratta di sepolture ad inumazione, tipiche di questo periodo.
Comunque è indubbio che la Valle dei Giovenco fosse popolata, poiché qualche secolo più tardi, quando ormai si potrà parlare di storia, un popolo ben definito, con caratteristiche proprie popola tutta la zona ed ha una propria organizzazione.
Ne sono valida testimonianza gli Oppida disseminati sulle alture che circoscrivono la Valle. Questi Oppida sono centri fortificati, posti su quote alte, che garantiscono le comunicazioni con i maggiori centri abitati più a valle e le vie di accesso fra l'uno e l'altro. W. Cianciusi, U. Irti e G. Grossi nel loro lavoro Profili di Archeologia Marsicana, descrivano ampiamente alcuni di essi: La Giurlanda, (m. 1187) che sovrasta il Passo di Forca Caruso; Casei, Colle Cavallo e Rivoli, (m. 908); Cesoli, (m. 867); Rocca Vecchia, "quota 942, ad Est di Pescina, sul versante sinistro dell'imbocco della Valle del Giovenco", Castelrotto e Colle Cùcume, "sulla destra della strada che da Pescina e Venere porta ad Aschi e poi a Sperone", Piano S. Nicola, M. Parasano, a quota 1284 "che incombe da sud-ovest sulla sponda sinistra dei Giovenco e su Ortona", Ortona dei Marsi "precisamente la parte medioevale dell'attuale abitato di Ortona", La Civitella sul Monte Civitella a quota 1310, Aschi Alto. Questi Oppida sono testimoniati da resti di cinta murarie, ceramiche, macine di pietra lavica, ecc.
- Le origini e Milionia -
Ortona dei Marsi è tuttora, come nel passato, il centro più importante e più popolato della Valle del Giovenco. Il Giovenco è un fiume che nasce all'inizio del Parco Nazionale d'Abruzzo (nel 1990, data in cui è stato redatto questo opuscolo, Ortona non faceva ancora parte del Parco Nazionale d'Abruzzo), al lato Nord, nel territorio dei comune di Bisegna, ed è alimentato in gran parte dalle sorgenti de " La Ferriera ", che sgorgano dalle rocce sotto l'abitato di San Sebastiano dei Marsi; esso percorre tutta la valle fino a Pescina e riversa le sue acque nel Fucino, di cui è stato unico affluente quando era un lago. Il nome Giovenco è dei tempi storici, ma il fiume nell'antichità primitiva aveva il nome mitico di Pitonio, ed era considerato una divinità temuta e amata. Ci sono delle buone ragioni per ritenere che la Valle del Giovenco fosse abitata fin dalla preistoria. Pietre lavorate, risalenti al Neolitico, sono state trovate da amatori nella campagna delle frazioni di Ortona, Carrito, Cesoli e Rivoli. Comunque è da ritenere fuor di dubbio che la Valle - allora molto fertile e con clima mite, per la vicinanza delle acque del Fucino - fosse popolata, poiché, quando più tardi si potrà parlare di storia, un popolo ben organizzato era stanziato nella zona e sarà protagonista nelle vicende che appresso accenneremo.
Questa popolazione viveva di caccia e di agricoltura rudimentale e, specialmente, di pastorizia; la religione era naturalistica " connessa con la vita libera della selvaggia natura e con la caccia " (Tacchi - Venturi, Storia delle Religioni). Ancora più numerosi sono i ritrovamenti di oggetti appartenenti all'" età del ferro ": lance, attrezzi agricoli, ceramiche, tombe ad inumazione... Si può parlare a questo punto (secoli IX-V a. C.) di un gruppo etnico ben definito che popola tutta la Marsica, di cui fa parte la Valle del Giovenco. " La Valle del Giovenco era sicuramente marsa per tutta la sua lunghezza. [...] Abbiamo una notizia da Plinio, secondo cui il fiume Giovenco nasceva negli ultimi monti dei Peligni e passava nel territorio marso: oritur in ultimís montibus Pelígnorum [...] transit Marsos " (W. Cian- ciusi, U. Irti, G. Grossi, Profili di Archeologia Marsicana, 1979).
Le prime notizie riguardanti la Marsica e la Valle del Giovenco ci vengono date dagli storici dell'antica Roma, Livio, Polibio, Plinio, e sono riferite agli anni 305-295 prima di Cristo, in occasione della narrazione delle guerre sannitiche. Fra Roma e i popoli Sanniti, in quegli anni lontani, c'è stata una lunga guerra di supremazia, durata più di cinquant'anni. I Marsi si trovavano fra i due belligeranti in una posizione strategica di somma importanza e, negli intrigati eventi che caratterizzarono quella guerra, essi ora erano alleati degli uni ora degli altri, anche se predominava l'avversità contro i Romani. Tra le fortezze militari, sparse qua e là nella Marsica, ne troviamo una: Milionia, come la chiama Tito Livio: essa è stata localizzata nelle contrade di Casej, Rivoli, Colle Cavallo nel territorio di Ortona dei Marsi. Nel 1862 lo storico Antonio De Nino ha pubblicato in Notizie degli Scavi di Antichità comunicate alla Regia Accademia dei Lincei per ordine di S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione un lavoro dal titolo: " Marsi XII - Ortona - Resti degli Antichi Recinti Poligonali Riconosciuti nel Territorio del Comune "; in esso l'Autore localizza l'abitato di una città nelle contrade sopra indicate, e il Di Pietro, nei suoi lavori, la identifica come Milionia.
Del resto quasi tutti gli altri studiosi di storia locale concordano nel localizzare la Milionia di Tito Livio (libro x) nei posti che abbiamo detto. La prova decisiva è stata data dal ricercatore inglese Andrew J. Slade. " Il sito di Milionia appare disposto in modo da controllare e bloccare l'accesso della valle del Giovenco, sia per chi viene dal Fucino, attraverso la gola di Pescina, che per chi viene dall'area Peligna, attraverso i sistemi viari della Valle di Carrito e della "Portella" dell'Olmo di Bobbi, e dell'area Sannitica. La sua recinzione muraria, con circonferenza di circa 3,600 Km. [...] chiude nel suo interno ben tre alture e controlla sia il percorso basso che quello alto del fondo valle " (W. Cianciusi . . ., op. cit., pag. 141).
Sul finire della guerra sannitica, 294 a. C., Milionia era una città-fortezza dei Marsi, alleati dei Sanniti, i quali, attaccati dall'esercito dell'Urbe al comando dei consoli Lucio Postumio e Marco Attilio Regolo, si ritirarono da Sora e posero una linea di resistenza proprio a Milionia. Il console Lucio Postumio Megello cinse immediatamente d'assedio la città, ma la difesa sannita rimaneva indomita. Allora il condottiero Romano fece trasportare attraverso la via Valeria le macchine militari per portare l'attacco risolutivo alla fortezza. La strada però arrivava a Cerfegna (Collarmele) ed egli la fece prolungare fino al Valico di Forca Caruso, da cui si dipartiva un ramo che risaliva la leggera pendenza del Vallone di Carrito: in questo modo gli sarebbe stato possibile prendere alle spalle la fortificata Milionia. Lo stratagemma riuscì. Fu una giornata memorabile. I legionari di Roma iniziarono l'attacco di prima mattina, e l'impeto degli arieti, delle vince, delle catapulte fu violento. L'urlo dei soldati, misto al cozzo delle armi ed agli stridii delle macchine da guerra, riempì la valle di un clamore assordante. Alle 10 crollarono le mura. Ma i difensori non cedevano: in una disperata difesa essi contesero ai Romani casa per casa, pietra per pietra. La lotta feroce corpo a corpo, per le vie e dentro le abitazioni si protrasse con esito incerto fino alle due del pomeriggio.
Alla fine l'aquila romana piantò gli artigli vittoriosi sulle mura rase al suolo dell'eroica fortezza. Furono contati i morti ed i feriti: solo da parte sannita si ebbero 3200 morti e 4200 feriti e prigionieri. Tito Livio non ci tramanda l'entità delle perdite romane. Era l'anno 458 dalla fondazione di Roma e mancavano 294 anni alla nascita di Cristo. La storia di Milionia finì ed i Marsi entrarono a far parte definitivamente della repubblica di Roma.
- Milionia -
Enumerando precedentemente gli Oppida esistenti sulle alture della Valle dei Giovenco, abbiamo accennato ad uno di essi tra Casei, Colle Cavallo e Rivoli. Ebbene, si tratta di MILIONIA, la quale alla fine dei IV secolo a.C. era diventata una città fortificata e densamente popolata. Di essa parlano gli storici dell'antica Roma - Livio, Polibio, Plinio... -
Nel passato fra gli storici locali c'è stata una lunga discussione sull'ubicazione di Milionia. Ora non ci sono più dubbi che essa fosse situata nelle località sopra nominate.
Già nella seconda metà dell'Ottocento lo storico marsicano Andrea di Pietro riportava alcune iscrizioni tombali, qui ritrovate nell'aprile del 1857 dal sacerdote ortonese Luigi Petroni:
Q.CRANIUS.P.EPIMACUS
IANTERNINAE. J. L. PRIMAE
UXORI.SUAE E.H.M.A.N.S.
Q. VIBE.DIUS.RUFUS.
Q.F.STR.V.A.XXV.
T.PACIUS.TI.SEC.SAL.
VIIBIA.MIA.P.S.E.
OSSA. SITA.
Nel 1862 lo storico Abruzzese Antonio De Nino, in un lavoro dal titolo Marsi XII - Ortona - Resti degli Antichi Recinti Poligonali Riconosciuti nel Territorio del Comune e pubblicato in "Notizie degli Scavi di Antichità Comunicato alla Regia Accademia dei Lincei per Ordine di S.E. il Ministro della Pubblica Istruzione", localizza Milionia nelle contrade indicate e riconosce i resti delle mura poligonali come appartenenti all'antica fortezza marsicana.
Parte di questi resti ancora oggi si possono vedere ed ecco come sono descritti da W. Cianciusi, U. Irti e G. Grossi nell'opera citata: ci sono "Resti di abitazioni, strade, terrazzamenti e cisterne nell'interno; ceramica d'impasto e oggetti fino alla fine del I sec. a.C.. Circonferenza muraria oltre Km. 3,5... Il lato est della cinta muraria, conserva circa 1 Km. di recinzione muraria in I e II maniera poligonale con tratti alti 2 metri. Questa parte abbastanza ben conservata, si può raggiungere da un sottopassaggio dell'autostrada Roma - Pescara, visibile dopo le ultime case di Rivoli, sulla provinciale prima dei bivio di Carrito. Dopo aver attraversato il sottopassaggio, si gira a sinistra e lungo una piccola strada campestre si raggiunge l'ingresso di una grande porta (appena riconoscibile), indirizzata ad est, da cui si diparte una strada antica, che si dirigeva verso il Passo dell'Olmo di Bobbi e della Valle di Carrito (della stessa è possibile notare tratti di terrazzamento). Dopo aver superato la porta, dirigendosi verso nord, si notano i resti di una fascia anulare interna ed al margine a valle della stessa è visibile l'ampio tratto precedentemente descritto. Resti di cisterne in opera cementizia, a pianta rettangolare e copertura a volta, oltre ad un pozzo in opera cementizia, si trovano nelle località di Colle Cavallo e Rivoli...
Il nome latino di Milionia nel Medio Evo si è corrotto in Melogne o Melogna, come viene citato sia nella bolla di Pasquale II (1115) che in quella di Clemente III (1190), nelle quali si parla delle chiese della Marsica e si nomina, appunto, un S. Quirico in Melogne (Sancti Quirici in Melogne).
Di Milionia si sono interessati Alfano, Corsignani, il citato De Nino, Federico Terra, Rosato Sclocchi: per fermarci agli studiosi del passato. Rosato Sclocchi ha sostenuto che Milionia non si trovasse nel sito descritto, ma le sue argomentazioni non sono state ritenute probanti dal prof. Ugo Speranza in un articolo dal titolo "MILIONIA", pubblicato in La Pubblica Assistenza dell'Aprile 1934. Muzio Febonio nel sec. XVII dice di non sapere dove localizzare la città.
Le vicende di Milionia -
La pace del 304 a.C., più che una vera pace, fu piuttosto una tregua per riprendere fiato. li Momsen scrive: "La generosa nazione sannita si rendeva conto che la pace, così com'era stata segnata, era più rovinosa delle più rovinose delle guerre sfortunate", e, pertanto, ricominciarono le ostilità.
I Marsi si ritrovarono di nuovo fra i due contendenti, e ancora preferirono gli alleati tradizionali, i Sanniti. Nel 301 a.C. (451 dalla fondazione di Roma) mossero guerra a Roma ed attaccarono Carseoli (Carsoli), presieduta da 4.000 uomini. li dittatore Marco Valerio Massimo sconfisse gli insorti e li respinse nei loro territori. Conquistò poi Alba Fucens e Cerfegna (Collarmele), costringendo i Marsi a ritirarsi nei loro estremi confini entro le città fortificate di Milionia, Prestilia e Fresilia. Valerio Massimo non diede tregua ai Marsi ed assediò le loro fortezze, che caddero in sua mano. Così Milionia subì una prima distruzione da parte dei Romani, da cui però si riebbe subito, dopo che i Marsi accettarono un nuovo patto di alleanza con i Romani.
Intanto, la guerra fra Roma e i Sanniti continuava. Anzi, ci fu un risveglio da parte sannita, che dette filo da torcere a Roma: i Sanniti furono abili e valorosi, anche se sfortunati.
La pace che si stava tentando fra Roma e gli Etruschi rappresentava un pericolo mortale per i Sanniti, sicché questi promisero un aiuto militare agli Etruschi, se si fossero decisi a resistere contro Roma. La mossa diplomatica riuscì in pieno ed "Il Sannio impiegò ogni residua sua forza per mettere in campo tre eserciti: uno destinato alla difesa del suo territorio, il secondo per entrare in Campania, ed il terzo, il più numeroso, per soccorrere l'Etruria. Quest'ultimo, condotto dallo stesso duce dei Sanniti Gellio Ignazio, passando per il paese dei Marsi e per quello degli Umbri, che favorivano la Lega...", entrò nell'Etruria (Momsen; cfr. anche Tito Livio, 1.X).
Ritroviamo così i Marsi in questo periodo (295-294 a.C. - 457-458 di Roma) di nuovo alleati dei Sanniti contro Roma.
Allorché i Romani si accorsero della manovra sannita e che gli Etruschi si sollevavano, armarono due eserciti. Uno di questi si accampò presso Sora nella Campania, proprio a stretto contatto con l'avversario. I Sanniti con un abile colpo di mano, favoriti dalla nebbia, attaccarono di sorpresa il campo romano e fecero una strage spaventosa, uccidendo lo stesso pretore Lucio Opimo Pansa. I Romani reagirono e cacciarono i nemici fuori dell’accampamento. I Sanniti, però, sebbene incoraggiati dal successo, capirono che la reazione romana si sarebbe fatta sentire subito e minacciosa, e perciò si ritirarono a Sora, città antica. Quando la notizia dell'attacco sannita arrivò a Roma, il console Lucio Postumio, sebbene convalescente da una malattia che lo aveva trattenuto a casa all'inizio delle operazioni, corse subito dal collega Marco Attilio Regolo, che era subentrato a Lucio Pansa. I Sanniti non potendo far fronte ai due eserciti, si ritirarono ancor più nell'interno. La via più facile per la ritirata era la Marsica, dove c'erano città fortificate ed un popolo amico. Qui la città, che maggiormente si prestasse ad una difesa energica, era Milionia, sulla riva Sud-Est dei lago Fucino, ed in essa i Sanniti si apprestarono a ricevere l'assedio dei Romani, che li inseguiva- no, condotti dal console Lucio Postumio Megello. Questi attaccò subito la fortezza, ma la difesa sannita rimaneva indomita. Allora il console romano fece trasportare, attraverso la via Valeria, le macchine militari per dare l'attacco risolutivo a Milionia. La strada arrivava fino a Cerfegna e per l'occasione fu estesa fino al valico di Forca Caruso, da cui si dipartiva un ramo che risaliva la leggera pendenza del vallone di Carrito e si poteva così prendere alle spalle la fortificata Milionia. Fu una giornata memorabile. I legionari dell'Urbe iniziarono l'attacco di prima mattina e l'impeto degli arieti, delle vinee, delle catapulte fu violento. L'urlo dei soldati, misto al cozzo delle armi ed agli stridii delle macchine da guerra riempiva la Valle del Giovenco in un clamore assordante. Alle dieci del mattino crollarono le mura. Ma i difensori non cedettero. In una disperata difesa contesero ai Romani casa per casa, pietra per pietra. La feroce lotta corpo a corpo per le vie e dentro le abitazioni si protrasse, con esito incerto, fino alle due del pomeriggio. Alla fine, l'aquila romana piantò gli artigli vittoriosi sulle mura rase al suolo dell'eroica fortezza. Furono contati i morti ed i feriti: solo da parte sannita si ebbero 3200 morti e 4200 feriti e prigionieri; Tito Livio non ci tramanda l'entità delle perdite romane.
Correva l'anno 458 di Roma e mancavano 294 anni alla nascita di Cristo. La storia di Milionia finì ed i Marsi entrarono a far parte della grande orbita romana.
- Poppedio Silone -
Dopo la distruzione di Milionia i Sanniti si ritirarono nelle loro regioni, soprattutto nell'attuale Molise, e furono in poco tempo definitivamente sottomessi dai Romani. Questi nella Marsica già avevano fondato la città di Alba Fucens, presso l'odierna Avezzano, ed acquartierarono la loro guarnigione militare in essa. I nativi della sfortunata Milionía si sparsero nella valle del fiume Giovenco, dando origine alle località che oggi ancora conosciamo, ma con nomi più recenti, che possiamo far risalire al massimo al Medio Evo. Certamente nella Valle del Giovenco la vita continuò, poiché, dopo un paio di secoli, e cioè circa cento anni prima di Cristo, ritroviamo proprio in questi posti una famiglia, che ha lasciato il suo nome alla storia, in uno dei momenti più drammatici della storia di Roma: la rivolta dei popoli italici contro l'Urbe per ottenere la cittadinanza romana, con tutti i diritti e i privilegi a questa connessi. Questa famiglia è la famiglia Poppedia, dalla quale è nato il personaggio storico Quinto Poppedio Silone.
La famiglia Poppedia era imparentata con la famiglia Vezia di Marruvium, uno dei centri più importanti della Marsica in quell'epoca, che sorgeva sulle rive del Fucino, dove attualmente c'è San Benedetto dei Marsi. La stessa famiglia Poppedia aveva molti contatti con Roma, specialmente con il partito favorevole alla concessione della cittadinanza agli Italici, e svolgeva un'azione diplomatica per risolvere la vertenza pacificamente. Plutarco, uno dei grandi scrittori dell'antichità romana, nelle Vite Parallele, al capitolo 111 della vita di Catone, così scrive: " Essendo Catone ancora fanciullo, i Soci dei Romani [i popoli italici] si adoperavano per ottenere la partecipazione dei diritti politici di Roma ed un certo Poppedio Silone, uomo bellicoso e che godeva una grandissima stima, amico di Druso, passò presso di lui alcuni giorni, nei quali, divenuto familiare ai due ragazzi, disse: "Orsù, fate in modo che in favore nostro preghiate lo zio ad adoperarsi per i nostri diritti". Cepione, annuendo, faceva di sì; ma Catone non rispondeva nulla e guardava gli ospiti fissamente; Poppedio soggiunse: "Non sei capace di aiutare gli ospiti presso lo zio, come tuo fratello?". Catone non rispose, sembrando anzi col silenzio e con l'espressione respingere la preghiera. Silone, dopo averlo sollevato al di sopra della finestra come per lasciarlo cadere giù e facendo nello stesso tempo la voce grossa, gli imponeva di dire sì o lo avrebbe gettato giù, e con le mani scuoteva il corpo proteso al di là della finestra. Poiché Catone per molto tempo così perseverava, inflessibile ed inesorabile, Poppedio lo lasciò perdere, dicendo tranquillamente agli amici: "Quale fortuna per l'Italia che questi è un fanciullo; poiché se fosse stato adulto credo che neppure un voto ci sarebbe stato per noi nell'assemblea popolare" ". Druso era un grande amico di Poppedio Silone e capeggiava a Roma il partito che favoriva l'estensione della cittadinanza anche agli Italici. Anzi fece in seguito anche delle proposte concrete al Senato per risolvere la questione, ma tale atteggiamento gli procurò l'uccisione ai piedi della statua del padre.
Questo evento delittuoso fece perdere al Marsicano qualsiasi fiducia e speranza in una soluzione pacifica della controversia. Si arrivò così alla rivolta armata dei popoli Italici, che comprendevano gran parte dell'Abruzzo, delle Marche e del Sannio. Questi si costituirono in federazione, elessero a capitale Corfinio, batterono moneta propria (un pezzo portava la scritta in latino e in lingua osca Italia), formarono un senato e un esercito come quelli dei Romani e diedero inizio alla guerra detta poi dagli scrittori " Guerra Italica " o " Guerra Marsa ". I due consoli che conducevano gli eserciti italici furono Caio Papilio Mutilo, a Sud del Sannio, e Quinto Poppedio Silone, sotto il cui comando militavano le forze dei Marsi, dei Peligni, dei Vestini, dei Marrucini, dei Frentani.
Dei fatti riguardanti in particolare le azioni di Poppedio Silone, poco sappiamo, ma certamente le sue imprese dovettero fare non poca impressione alla gente di allora, se i Confederati di Corfinio, intorno alla metà dell'anno 90 a. C., dopo una strepitosa vittoria di Silone sui Romani condotti da Quinto Cepione, gli dedicarono un trionfo, coniando perfino delle monete, che recavano la scena del giuramento degli Italici con la scritta " Q. SILO " (Quintus Silo = Quinto Poppedio Silone). L'anno seguente, 89 a. C., si trovò di fronte Caio Mario, che sconfisse il condottiero marsicano in due battaglie, una ad Alba Fucens e un'altra nella Val Comino. Successivamente Silone, riorganizzato il suo esercito, ebbe ragione di Porcio Catone, il quale lasciò la vita sul campo. I Romani, intanto, aggirando i Marsicani, sconfiggevano le altre forze italiche e occupavano la capitale Corfinio. Successivamente il generale romano Silla inseguì gli Italici fin nel Sannio e nell'Apulia. Poppedio Silone, riunitosi anch'egli con i resti dell'esercito italico in quest'ultima regione condotto da Mario Ignazio, fu costretto ad accettare battaglia dal pretore Metello, fu sconfitto e cadde combattendo.
Il grande storico di Roma Tito Livio deve aver parlato diffusamente di Poppedio Silone nella sua monumentale opera sulla storia di Roma, ma la narrazione si trova proprio in quei libri, che sono andati perduti e dei quali ci restano solo gli " indici ", detti epitomi. Nell'epitome al libro 76 si leggono queste parole. " Silo Pompaedius dux Marsorum auctor eius rei in proelio cecídit (Silone Poppedio condottiero dei Marsi primo responsabile dell'avvenimento cadde in battaglia) ".
Nel 1814 in contrada " Le Rosce ", sulla riva destra del fiume Giovenco, a Sud di Ortona, fu ritrovato un cippo sepolcrale su cui c'era la scritta:
POPPEDIA. P. F. SECUNDA
FILIAE. OSSA. SITA. FITAE.
M. F. MATRI. OSSA. SITA.
- Ortona medioevale -
Dopo i fatti fin qui narrati non sappiamo più niente delle vicende dei paesi della Valle del Giovenco per più di mille anni. Da quello che è avvenuto in seguito si può arguire, molto verosimilmente, che si siano formati gli agglomerati di abitazioni, che conosceremo dopo il Mille. Vanno ricordati in particolare Fondo Grande (" Fundus Magnus "), suppergiù l'attuale via Roma, via Aia, La Pincera, Tra i Cancelli, Prato Barone ... ; Vado Albone, fra San Felice e Santa Maria; Fumegna, l'attuale Sulla Villa; Carreto, Carrito; Melogne, Rivoli e dintorni; Cesule, Cesoli; Parasepe, Valle Sant'Angelo sul monte Parasano ai confini con Pescina; Fonticella, sulla strada di Santa Maria; Codardo, che conserva la stessa denominazione, così come Fondittoli. Probabilmente queste contrade erano centri abitati fin dai tempi di Roma, ed hanno subito piccole variazioni nei secoli del silenzio.
Ortona, come è oggi localizzata, è sorta nel Medio Evo. Già nei secoli XI e XII si presentava come un paese fornito di mura di cinta, ben organizzato, con propria personalità giuridica ecclesiastica. Intorno al 1100 le bolle papali di Pasquale II e di Clemente III parlano di benefici intitolati a S. Giovanni, S. Onofrio e S. Abbondio in Ortona. Ciò induce a pensare realisticamente che il primo nucleo del paese, dopo le vicende dell'impero romano, si sia ricostituito sulla sommità del monte, dove oggi si vedono i resti della torre medioevale e la chiesa di S. Onofrio. In una pubblicazione della Sovrintendenza ai Beni Culturali dell'Aquila, dal titolo Architettura e Arte nella Marsica, vol. 1, viene cosi descritto il primo nucleo dell'abitato di Ortona dei Marsi:
" Il borgo medioevale, di origine militare, si sviluppa linearmente su un crinale con l'asse principale orientato alla torre; successivamente l'abitato si è esteso sul versante Nord Ovest del rilievo, sempre con percorsi paralleli alle isoipse. Il nucleo storico, contenuto da una doppia cinta fortificata di differente epoca, è costituito da un tessuto edilizio serrato ma frastagliato, caratterizzato da strutture medioevali a cui si sovrappongono tipologie più tarde, con prevalenza di edifici a due, tre livelli " (pag. 49).
Precedentemente è iniziata anche la storia religiosa cristiana del paese, che certamente risale, se non proprio all'inizio della nostra era, ai secoli immediatamente seguenti. Le chiese di S. Onofrio e di S. Giovanni con i relativi benefici non sono certo sorte improvvisamente, ma presuppongono il formarsi di una mentalità, di una tradizione e di una cultura, che, per quei tempi, richiedevano secoli di maturazione. I resti delle mura delle abitazioni nella parte più vecchia del paese, con le tracce di iscrizioni che ancora oggi si possono vedere - nonostante la distruzione operata dal tempo, dall'abbandono e dal cemento - stanno a testimoniare che, spuntata l'aurora di rinascita sociale, economica, demografica e religiosa dopo il Mille, ci troviamo di fronte a un popolo ben preparato e disposto a seguire l'evolversi della storia e della società. In un Catalogo dei baroni dell'anno 1187, redatto per ordine del re Guglielmo II il Buono - secondo quanto riportato dal Brogi - è nominato Ortona quale paese di confine del Principato de' Marsi; lo stesso Ortona faceva parte dei territori tenuti in demanio dal Conte Rainaldo De Celano. Nei secoli XIII e XIV Ortona è già un centro di tutto rispetto nella Valle. In questi anni si erigono le due chiese più antiche: S. Onofrio e S. Giovanni Battista, e la torre per la guarnigione militare con funzione anche di vedetta di segnalazione. La chiesa di S. Onofrio è stata certamente la prima e la più importante, poiché sorgeva entro la cinta, delle mura interne del paese, e doveva un tributo superiore alle altre: venti braccia di candele e due coppie di piccioni. Importante era anche la chiesa di S. Abbondio, il cui beneficio è esistito fino al 1580, quando il vescovo Colli lo aggregò al Seminario di Pescina.
Certamente ci si chiederà: " Ma dove stava questa chiesa di S. Abbondio? ". Sinceramente, non ne abbiamo idea, ma possiamo azzardare un'ipotesi: può darsi che essa sorgesse dove oggi c'è la chiesa di S. Antonio abate. Col passare dei secoli, venuto a cadere il culto popolare di S. Abbondio e trasformato il titolo del beneficio, i fedeli hanno ricostruito il, piccolo tempio tra il 1600 e il 1700, dedicandolo a S. Antonio abate. Di questa chiesa accenneremo in seguito. Nella prima metà del 1300 fu eretta fra la cinta interna e quella esterna delle mura la parte centrale della chiesa di S. Giovanni Battista con il campanile, su cui, ancora oggi, c'è la campana grande, lesionata, che porta incisa la data 1342. L'edificio, come tutta la parte più antica di Ortona, non ha fondamenta, ma sorge direttamente sulla roccia compatta e conserva ancora la struttura fondamentale delle colonne in pietra squadrate del romanico delle nostre zone; originale del '300 è anche la facciata con il rosone, che è un esempio tipico dell'arte abruzzese. In seguito essa diventerà la parrocchiale e subirà diversi rifacimenti e aggiunte. In particolare sul finire del '400 e all’inizio del '500 fu ampliata con l'aggiunta delle due navate laterali e furono eseguiti gli affreschi, di cui resta solo qualche traccia, sufficiente però per mostrarci due date, leggibili nella prima colonna a destra: 1484 (in cifre arabe) e 1500 (caratteri latini). Questi affreschi raffigurano i Santi più popolari della tradizione cristiana: S. Lucia, S. Caterina m., S. Antonio abate, ecc. Essi sono stati riscoperti recentemente, nel togliere l'intonaco fatiscente che li ricopriva. La torre medioevale di Ortona dei Marsi è da far risalire alla prima metà del '200. La terra di Ortona faceva parte della Contea di Celano e " nella prima metà del XIII secolo l'incalzare degli eventi politici nel regno comportò un nuovo eccezionale sforzo per adeguare lo scacchiere comitale agli scontri che si annunciavano imminenti " (Soprintendenza Belle Arti dell'Aquila, Architettura e Arte nella Marsica, vol. I).
Questo fu il motivo per erigere a Ortona la torre, la quale è così descritta nell'opera testé citata: " Ortona dei Marsi - Torre Cintata. - La torre, completamente interna al recinto, domina il passo che collega la conca del Fucino a Sulmona e alla Valle del Sagittario. Il recinto, realizzato con forte scarpatura esterna, ma privo di redondone e di sistemi per il fiancheggiamento, conserva ancora all'interno tracce di setti murari, di una rampa di salita agli spalti, di ambienti coperti con volte a botte. Gli elementi di pietra lavorata sono di essenziale semplicità, come era uso corrente negli apprestamenti ossidionali dell'epoca. La torre cilindrica presenta caratteri comuni alla torre di Bominaco ed ai recinti delle rocche di Calascio e di Oricola, in partico- lare per la conformazione del basamento cilindro-conico a forte scarpatura " (pag. 166).
Nei secoli di cui abbiamo detto fino adesso, la vita nei piccoli centri della Valle doveva essere piuttosto tranquilla. L'isolamento dovuto alla posizione geografica della zona, praticamente chiusa a tutti i lati dalle montagne, entro le quali il fiume Giovenco si è scavato il sinuoso percorso in centinaia di milioni di anni, teneva lontano gli abitanti dai tumultuosi avvenimenti che si sono succeduti dalla caduta dell'impero romano all'avvento dell’era carolingia e alla conquista normanna e sveva. Certamente hanno esercitato su Ortona la loro signoria i conti Berardi di Celano e più tardi gli altri Signorotti non solo di Celano. ma anche di altri feudi, come Avezzano, Corfinio e Alfedena. Dal punto di vista religioso, Ortona ha fatto sempre parte della diocesi dei Marsi, che aveva la sede a Marsia (nome medioevale di San Benedetto dei Marsi), ed avrà certamente risentito, anche se in modo marginale, le conseguenze degli avvenimenti, a volte tumultuosi, che hanno caratterizzato la storia della chiesa diocesana specialmente nel Medio Evo. Basti pensare allo scisma che ha spaccato la diocesi in due intorno all'anno Mille ad opera del vescovo Attone, sanato da S. Berardo. La gente viveva di pastorizia e di agricoltura e non doveva essere molto povera, poiché il clima e la fertilità delle campagne risentivano dei vantaggi delle acque del lago Fucino. Certamente a questo punto sarà sorta nel lettore un'altra domanda: " Perché Ortona si chiama così? ". Non è facile rispondere. Probabilmente la sua posizione rispetto al lago Fucino, a Oriente ne ha suggerito il nome, Oriens, Ortus Solis, in latino, appunto. Di più è difficile dire, almeno per noi.
- Il Cinquecento -
Il '500 è stato un secolo pieno di avvenimenti che hanno inciso anche nella vita dei paesi della Valle del Giovenco. Le continue guerre tra Francesi e Spagnoli per il dominio nell'Italia meridionale, il consolidarsi della dominazione spagnola, " che in pochi anni provoca radicali trasformazioni in tutto l'Abruzzo [ ... ], che significa per tutti accentuata burocrazia, gravoso mantenimento di truppe, esasperato fiscalismo " (A. Melchiorre, Storia d'Abruzzo), il frequente cambiamento dei feudatari che vendevano, barattavano, si scambiavano le terre, come allora si chiamavano, con gli abitanti, gli animali, ecc.: tutto ciò ha movimentato anche le vicende di Ortona. Riferisce G. Buccella nell'" Introduzione " alla pubblicazione di un manoscritto del sec. XVIII del notaio Filippo Buccella, di cui diremo più avanti: " Nel 1454 il Re Alfonso investiva del Castello di Ortona e di Carrito Giampaolo Cantelmo a cui il 29 novembre 1461, succedeva Giovanni Cantelmo con il titolo di conte. [... ] Nel 1579 la Contea di Ortona veniva acquistata da Fabio degli Afflitti di Alfedena, venduta poi nel 1602 ad hasta nel Sacro Collegio ad istanza dei creditori passava al barone Giovanni Fibbioni dell'Aquila, il quale la rivendeva a Francesco Paolini di Magliano ... ". Bastano questi accenni per capire quanto fosse tormentata la vita di questi paesi in quei secoli. Ma l'avvenimento certamente più decisivo fu il Concilio di Trento e la conseguente riforma della Chiesa cattolica. Nel 1580 la sede vescovile della diocesi dei Marsi e la cattedrale furono definitivamente trasferite da Marsia (San Benedetto dei Marsi) a Pescina. Il vescovo Matteo Colli (1579-1596), nell'applicare i decreti del Concilio, tra l'altro, trasferì i benefici ecclesiastici delle chiese di S. Felice, di S. Agnese (Sulla Villa), di S. Abbondio, di S. Tommaso (Cesoli), di S. Angelo in Parasepe, di S. Croce in località " Codardo " all'erigendo seminario per la preparazione dei preti in Pescina.
Un'altra caratteristica delle vicende dei nostri paesi in questo secolo ci viene indicata dallo stesso vescovo Colli in una Relazione ad limina del 1594. Egli ha cominciato a fare la visita pastorale nelle parrocchie della diocesi, " ma poi ho dovuto desistere per il pericolo della grande quantità di briganti che infestano tutta la diocesi e la provincia e in qualche modo la dominano col ferro e col fuoco, hanno anche trucidato più di 50 uomini ". Nella relazione precedente, 1590, riferisce che, trovandosi egli malato, aveva dato l'incarico di andare ad amministrare la Cresima al suo Vicario, il quale volentieri era andato in tutti i paesi della diocesi " ad eccezione di quelle località poste tra i monti, da dove la gente si era rifiutata di scendere in posti più sicuri; né ci si poteva recare da loro a causa del grandissimo pericolo che si correva, difatti, mentre egli si trovava nel territorio di San Sebastiano, a Pescasseroli, distante cinque pietre miliari, sono stati trucidati sette uomini ".
Anche questi sono soltanto alcuni scorci di storia e di vicende di quell'epoca, ma abbastanza significativi per avere un'idea di come allora si svolgesse la vita nei nostri paesi. Nella stessa relazione del 1594 apprendiamo che a Ortona " esiste la colleggiata di S. Giovanni Battista con la prepositura e cinque canonicati, il cui reddito annuo non raggiunge i 20 ducati e per questo furono riuniti alcuni benefici semplici che si trovano nel territorio di quel luogo ". La notizia ci informa che ormai il centro del paese dalla parte alta di esso si è spostato verso i piedi del monte in direzione sud-est, seguendo l'espansione delle abitazioni, fino alla chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista. La cinta esterna delle mura, scendendo dalla torre, circondava l'attuale " Via Piano ", ed aveva all'altezza della piazza che oggi sta davanti al palazzo comunale la porta principale; i nostri vecchi, fino a qualche decennio fa, chiamavano quel posto " La Porta ".
Il titolo di " colleggiata ", di cui è insignita la chiesa di S. Giovanni, ci informa dell'importanza che il paese aveva raggiunto nei confronti degli altri. Difatti il vescovo Colli nella citata Relazione nomina solo otto colleggiate in tutta la diocesi: Celano, Avezzano, Cese, Scurcola, Magliano, Albe, Trasacco e Ortona. La colleggiata di Ortona aveva, come detto, un preposto e quattro canonici, nonostante la povertà delle rendite dei benefici, che aveva indotto lo stesso Vescovo a riunire ai canonicati altri benefici semplici, cioè che non erano legati ad un ufficio. Questa miseria non riguardava soltanto i preti, ma ne soffriva tutta la popolazione, ed era conseguenza delle guerre continue, dei ripetuti passaggi degli eserciti arruolati dai capitani di ventura, al soldo ora di un principe ora di un altro, i quali dove arrivavano saccheggiavano, rubavano, distruggevano i raccolti, razziavano, lasciando i paesi nella fame e nella disperazione. Gli sbandati, poi, i licenziati, i disertori, i rimasti senza niente ingrossavano le bande che si davano alla macchia e terrorizzavano le popolazioni, come ripetutamente testimoniano i Vescovi nelle loro relazioni.
- Il Settecento -
Abbiamo già accennato che sul finire del '600 si era avviato il superamento della grave crisi caratterizzante tutto il secolo. Il '700 è il secolo del risveglio. Il segnale che riteniamo più significativo è il fatto che in tutta la Marsica, proprio durante questo secolo, si assiste alla ricostruzione, al restauro, all'ampliamento e alla costruzione di chiese, precedentemente danneggiate. Il vescovo che più degli altri è stato fautore di queste iniziative fu Giuseppe Baroni.
Il fenomeno è caratteristico anche ad Ortona. In un'iscrizione ancora conservata nella chiesa di S. Giovanni Battista è detto che il Vescovo Baroni il 29 ottobre 1734 consacrò la chiesa e fissò la festa dell'anniversario della consacrazione, " per comodità del popolo ", alla terza domenica di settembre. Dopo pochi anni la festa fu fatta coincidere con quella della Natività della Madonna l'8 settembre. I lavori fatti nella detta chiesa, in questa circostanza, sono stati moltissimi e ne hanno cambiato del tutto la fisionomia. In particolare. rimasero le colonne di pietra dell'edificio originario con gli affreschi, fu rifatto il tetto e la volta, l'altare in marmo intarsiato, furono aggiunti i tre altari laterali alla navata di destra; inoltre fu costruito l'organo e la cantoria, fu installato il pulpito in legno scolpito a rilievo e fu fatta una sedia con tronetto in legno scolpito di maggiore pregio del pulpito; fu ricostruito anche il portale dell'entrata principale, ad opera di Mastro Bernardino Melone della terra di Alfedena. Il risveglio religioso ci viene confermato da altri particolari. In un documento dei Civilia nell'Archivio Dicecesano di Avezzano si dice che fu istituita nel 1719 una messa per i defunti tutti i lunedì da celebrarsi all'aurora, un'altra messa al sabato in onore della Madonna per le spose, e fu accesa una lampada votiva per le spose.
La chiesa di S. Antonio Abate -
A via S. Antonio, nella parte alta di Ortona, verso il lato Sud, c'è anche oggi una chiesa attaccata ai fabbricati privati, detta di S. Antonio abate. L'edificio attuale risale al '700; in una iscrizione, posta sulla parete destra della chiesetta, è detto che la famiglia Maggi gode del diritto dell'Altare Previlegiato, cioè, ogni qualvolta si celebra la messa nella chiesa è automatico il suffragio per la famiglia. Il privilegio è stato concesso certamente perché la stessa famiglia si è interessata ai lavori per la chiesa, contribuendo sostanzialmente a farli eseguire a proprie spese, nell'anno 1789. Gli eredi Maggi ancora oggi, anche se i privilegi sono stati aboliti dal nuovo codice, continuano ad interessarsi della chiesa di S. Antonio con impegno e generosità, e non soltanto in memoria degli avi, ma con autentico affetto all'istituzione. Risale al sec. XVIII, a Ortona, la celebrazione della festa del Santo il 17 gennaio, così come si celebra ancora attualmente.
I nove giorni precedenti la festa tutte le sere ci si reca nella chiesa per la celebrazione della novena. Fino a qualche decennio fa i bambini solevano portare i ceci abbrustoliti e sgranocchiarli fuori e dentro la chiesa. Il giorno della festa, dopo la celebrazione della messa nella parrocchiale, ci si reca a Sant’Antonio per la corsa dei cavalli, che consiste nel far girare cavalli, muli ed asini per le strette strade intorno alla chiesa; segue la benedizione con la reliquia del Santo e, in questi ultimi anni, si sono aggiunte altre manifestazioni popolari, come la sagra della salsiccia, il suono della banda, ecc.
Ovviamente, adesso gli animali non ci sono più, specialmente gli asini (chi sa poi perché questo fatto non preoccupa i verdi e gli ecologisti!) ed è stata aggiunta la benedizione dei mezzi agricoli motorizzati. C'è da notare che la neve non ha mai impedito la celebrazione della festa, anzi una bella nevicata l'ha sempre resa più caratteristica.
All'interno della chiesa, alcuni anni fa, sono state girate molte scene dello sceneggiato televisivo Vino e Pane di Silone. Oggi la festa di s. Antonio abate è più folklore che vera devozione, ma gli Ortonesi sono rimasti in un modo o in un altro molto legati ad essa e cercano di salvarne la tradizione.
- Le chiese -
Gli edifici sacri di Ortona stanno a provare l'importanza che il paese ebbe in campo religioso confermata dal fatto che " anticamente era sede della diocesi che s'intitola dei Marsi " come si legge nella " Storia delle due Sicilie ", di Nicola Corcia ed in " La Patria, geografia dell'Italia " di Gustavo Straforello, Torino U.T.E.T. 1898. Naturalmente il tempus edax non poteva non agire su questi edifici e molti così crollarono anche per il fatto, che costruite nuove chiese e riuniti i benefici ad esse annesse le decane furono abbandonate anche perché i fedeli preferirono frequentare quelle nuove più centrali e più comode soprattutto nell'inclemente stagione con l'alta coltre di neve ed il rigore dei geli. Non rimangono così tracce delle chiese di S. Abondio sita in " Fondo Grande " e consacrata con bolla di Clemente III, di S. Maria di Loreto " extra moenia terrae Hortonae ad Marsos erecta in fundo Paschalis Tomei loco nuncupata la Portella cum campanili, caemeterio fonte baptismi aliisque officinis opportunis ", e solo scarse notizie si hanno delle chiese di S. Agnese, S. Quirico e di S. Angelo come si legge in " Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi " di A. Di Pietro, Avezzano 1869, Tip. V. Magagnini. Tra i manoscritti abruzzesi della Biblioteca Vaticana se ne trova uno riguardante la citata Chiesa di S. Angelo con le seguenti parole: " istrumentum possessionis apud ecclesiam S. Angelis in territorio Ortona. 27 febbraio 1587. Regin. lat. 386 ff. 344-346. Presentata lettera di Matteo Colli, vescovo marsicano, il 17 agosto 1586 Antonio Matteo Battista, giudice regio di Ortona, indusse Domenico Sabbatini di Piscina procuratore dei Seminario di questa città, a prendere possesso della chiesa di S. Angelo di Ortana ". (G. Morelli, in manoscritti abruzzesi nella Biblioteca Vaticana). A causa del terremoto del 13 gennaio 1915 che, gravemente la scardinò, nelle sue strutture, fu necessario demolire la chiesa di S. Maria delle Grazie, all'ingresso di Ortona ove oggi è collocato il monumento ai Caduti della guerra 1915-1918. Era questa chiesa aperta al culto principalmente nei mesi estivi perché vi si veneravano la Madonna delle Grazie, S. Antonio e S. Rocca che le cui statue venivano trasportate nella chiesa parrocchiale per i festeggiamenti che avevano hanno ed avranno luogo nella prima decade del mese di settembre. Vi era un altare dedicato a S. Carlo Borromeo. Era operante sotto stesso nome di Madonna delle Grazie o del Gonfalone una Confraternita il cui regolamento venne approvato il 15 settembre 1748. Di questa chiesa ne fece la descrizione I. G. Cavini nella poderosa storia dell'architettura abruzzese: "Ai piedi dell'abitato che circonda il castello di Ortona una Chiesina isolata sulla strada reca le tracce dell'opera benedettina del dodicesimo secolo. La piccola aula rettangolare, senza importanza, conserva sulla fronte gli avanzi mal connessi di un portale che non sembrano occupare il loro posto primitivo. Consistono in due capitelli un archivolto in quattro pezzi centrinati. L'intaglio rappresenta i capitelli la foglia di palma tratta al molo dei buoni benedettini di Casauria, la quale riveste, con somma eleganza, la campana. Quello a sinistra, al disopra dei primo giro di foglie ha l'alberello del tronco, a spirale, e dalla chioma ricurva alle estremità su cui poggia un abaco col fiore nel mezzo della tavoletta incurvata, nell'altro non vi sono alberelli ma due ordini di foglie alternate sostengono un breve abaco e la tavoletta rettilinea. L'archivolto è sagomato a largo listello e guscio ricco di foglie radiali di acanto spinoso, ben modellate e ricurve in alto. Sembra che poggiasse direttamente sui capitelli come oggi si vede perché rappresenta una soluzione ornamentale non mal adottata finora consistente nell'evitare che le due prime foglie dell'archivolta debbono avere il fianco direttamente a contatto col piano d'appoggio Ad ottenere ciò si crearono, alle estremità del guscio due nascimenti di foglie piene, disposte in piedi sui capitelli e fortemente arricciati in alto. In questi poveri avanzi del portale sconosciuto appare così uno dei primi esempi di una soluzione ornamentale destinata a gran fortuna in Abruzzo ed anche questa geniale novità deve essere attribuita, insieme ai pezzi descritti, ad una dei maestri di Casauria che a fine del secolo era venuto ad assumere nuovi lavori nella Marsica. Aperta al culto è oggi la chiesa parrocchiale dedicata a S. Giovanni Battista (riconsacrata il 27 ottobre 1734 dal Vescovo Baroni che sorge sulla piazza omonima. Nel 1886 venne " riattata e ridottata " molta decenza dietro le premurose cure del canonico don Gianbattista Maggi procuratore della cappella, (A. Di Pietro op. citata), mentre nel 1932 venne rifatto il soffitto rovinato dal terremoto del 13 gennaio 1915. Nel 1947 per interessamento dei Parroco don Paolo Frezzini venne costruito un altare trono " per l'urna di S. Generoso mentre a cura del Parroco don Vincenzo Amendola è in funzione un impianto di riscaldamento. Trovasi sempre nella Biblioteca Corsiniana - fondo accademico - un registro delle rendite annuali della Cappella dì S. Biagio e S. Generoso e dalli pesi annuali di detta Cappella cominciata nell'anno 1764 al 1809; un liber obbligationum civilium huius Curiae Ortonae inceptus sub anno Domini MDCCXCV, ed un bilancio dell'amministrazione del Monte del Suffragio della Terra di Hortona de' Marsi eretto nell'anno 1670, nel mese di aprile, fatto dal sig. Dottor D. Isidoro Petrone rettore dei d.o Monte e Francesco Castrucci e Giacomo Petrone da detto Mese per tutto il mese di dicembre 1678 (Morelli o. e.). In questa chiesa si trova una cappella dedicata a S. Giuseppe che fu voluta da don Giuseppe Marcantonio e Giovanbattista Buccella con il jus patronato perpetuo dei loro credi come risulta dall'atto di fondazione e donazione del 1657 e dal decreto firmato il 12 settembre detto anno da mons. Ascanio De Gasperis, Vescovo dei Marsi: gli stessi signori Buccella, sopra ricordati, " si offrirono di restaurare, a loro spese, una fatiscente cappella dedicata a S. Antonio ed a S. Lucia ponendola sotto il titolo di S. Giuseppe e dell'Assunta ". Sono altresì aperte al culto la Chiesa di S. Onofrio nell'area del Castello che non presenta però nulla di eccezionale ed è ricordata in una bolla di Clemente 111; quella di S. Antonio Abate, di proprietà della famiglia Maggi e dove si celebrano le funzioni in onore del titolare il 17 gennaio con benedizione, dal sagrato, degli animali domestici. Vi si legge una iscrizione in latina che dice, tradotta in italiano, "Questa cappella (e') di diritto del patronato della famiglia Maggi e immediatamente soggetta all'ordine Costantiniano Anno del Signore 1789". Di recente la famiglia Maggi ha provveduto a restaurare questa Chiesa permettendo alla Radio-Televisione italiana di girare delle scene riguardandanti il film " Pane e vino " tratto dal romanzo di Ignazio Silone. Vi è poi la chiesetta di S. Pasquale fatta costruire nel 1794 come si legge in una lapide murata sopra la porta di ingresso, dai fratelli Francesco Saverio, Luigi, Vincenzo e Filippo Petroni per comodità propria, in quanto abitavano in quei pressi, e degli amici abitanti sempre nella zona. Passò poi di diritto sotto il Patronato della famiglia Abrami. Oggi ne sono proprietari i conti Senni di Bologna per averla ereditata, insieme al fabbricato ove è incorporata, da un loro cameriere ortonese. La parrocchiale risale al secolo XIV e non sfuggì all'attenzione dei Gavini che così ne scrive nell'opera citata:
" La Chiesa di S. Giovanni, risale al secolo XIV. Consisteva forse in una navata corrispondente al prospetto trecentesco. Più tardi con l'aumento della popolazione si volle ampliare e si aggiunsero due navate ed un coro di pianta quadrata voltato a crociera di ogiva su costoloni prismatici il quale recando in chiave scolpito lo stemma di S. Berardino da Siena si deve attribuire alla seconda metà dei quattrocento (Lo stemma di S. Berardino entrò in uso per devozione dopo la morte dei Santo avvenuta nel 1444). Forse in quest'epoca avvenne l'aggiunta delle navi laterali ed il conseguente allargamento della facciata. Del prospetto trecentesco a coronamento ornamentale rimangono il finestrone circolare contornato da ampia mostra e da un archivolto che parte da colonnine laterali sostenute da leoni su mensole, due finestre ai lati di essa a scoto trilobato con timpani ottagonali foggiati su colonnine pensili. E' una architettura che richiama le facciate di Lanciano senza avere di queste alcuna derivazione: vi è adoperato lo stesso schema del finestrone ciò che potrebbe indicare comunanza di origini. Ad ogni modo il prospetto si presenta come opera schiettamente personale di un artista imbevuto di principi trecenteschi. I capitelli delle colonnine pensili variano di forma e di carattere assumendo forme concrete che vanno da quelle francesi ad uncino a quelle abruzzesi composte di elementi locali. Gli altri ornamenti hanno gli stessi caratteri: astrichio, gigli entro volute salgono nei timpani delle finestre a trilobo, le palmette ad acroteri, tornano ad apparire sulla sagoma curvata intorno al finestrone, come l'autore forse aveva veduto aggirarsi sull'archivolto del portale di Paterno. Le colonnine radiali di questo rosone poggiano sulla corona centrale a quadrilobo, hanno il fusto or liscio ed ora a tortiglione, i capitelli ad uncino. Sostengono queste le arcatelle piatte semicircolari accavallate come nei rosoni di Lanciano. Le mensole delle colonnine pensili sono decorate di acanto silvestre, di tulipani, di teste umane piene di carattere. E' scomparsa la decorazione del portale sostituita con architettura della fine del 500 a dei primi del 600 e di essa, probabilmente, facevano parte due pietre infisse sulla cimata del nuovo ingresso; un tondo rappresentante l'agnello divina ed una figurina di S. Giovanni con un cartello: " Ecce Agnus Dei" ".
- Il castello -
Scrive il Gavini nella citata opera: " non restano che mura merlate ed una torre cilindrica a due porte in pietra che permettevano l'accesso " alla cittadella " perché intorno al maniera vi erano delle case. Fu il primitivo nucleo abitato. Intorno ad una di queste porte un corpo di fabbrica con finestre gotiche del periodo aragonese vendute ad antiquari. Bifora e due trifore di cui una con arcatelle sostenute da peduci invece delle colonnine. Il castello è distrutto, fino a pochi anni addietro serbò nobilissime vestigia della sua importanza in un corpo di fabbrica con finestre gotiche del periodo aragonese. Della veduta d'insieme di questo lato del castello ove era un ingresso semiacuto, rimangono solo appunti grafici divenuti ormai preziose memorie di una grandezza che non torna ".
Giacinto Do Vecchi Pieralice nel volume " Da Roma a Solmona - guida storico-artistica delle regioni attraversate dalla strada ferrata " per Luigi degli Abbati, Roma Stab. Tip. dell'Opinione 1888, ricorda il castello di Ortona scrivendo che a fianco dell'ingresso della rocca può ammirarsi una casina di stile arcoacuto le cui finestre bifore e trifore sono tanti gioielli d'intaglio e di ornato propri del secolo XIV, e che gli abitanti e signori di quella rocca furono - senti che razza di nomi - i Cantelmi, Afflitti, Saluzzo, Fibbioni, Paolini, Massimi.
" In una di queste case, ancora abitate, è posta una lapide decifrata e tradotta dal prof. Antonio Caleca dell'Istituto di Storia dell'Arte di Pisa, per interessamento dell'Avv. Walter Cianciusi cultore di storia della natia Terra. "
La trascriviamo:
A.D. MCCCCLXXXXVIII / HAC - DOM.PO - FECIT - DO / PN ANGLS - IAC - FRB - P. - MA / N.MRI - MATHI - I0 - DE - PRO. Anno Domini 1398, hanc domus (com) poni fecit dominus Angelus lacobi cum fratribus per manus magistri Matei Ioannis De Pezzo. Nell'anno del Signore 1398 Angelo Di lacopo ed i fratelli fecero fa. re questa casa ad opera di mastro Matteo Di Giovanni da Pezzo.
Il fiume Giovenco -
Sacri furono i fumi per gli antichi che ne immaginavano le acque popolate di belle naiadi e di spiriti benefici dato che esse scorrevano entro sponde sempre verdeggianti e rendevano fertili i campi che si allietavano di messi e di frutta. Quando le acque si gonfiavano e straripavano seminando panico e facendo danni, si pensava che gli spiriti dei fiume avessero avuto motivo di adirarsi e di qui i sacrifici rituali che vi si facevano, come anche, in certi giorni fausti o in ricorrenze onde l'aleggiare intorno ad ogni fiume di favole, leggende, superstizioni, memorie. Pure scorrendo ai suoi piedi Ortona vede nel Giovenco il suo fiume. Esso nasce all'inizio della Valle dei Templo e precisamente alle pendici dell'Argatone, in comune di Bisegna, e dopo aver percorso una amplissima ansa aggirando da sud a nord Pescina si articola in una delta di tre rami, uno dei quali aggira l'antica Marruvium, l'odierna San Benedetto dei Marsi, che si gettano nei numerosi collettori del Fucino e poi, sfociando attraverso l'emissario Claudio-Torlonia, nel bacino del Liri. L'antico suo nome luventius ”il Giovenco” lo deriverebbe da luventio Sannita che con le sue legioni, nel 90 A.C., affrontò Silla venendone sanguinosamente sconfitto in riva a questo fiume le cui acque si sarebbero arrossate dei sangue dei 18.000 Sanniti caduti. Il medico-demologo Gennaro Finamore nel suo libro sulle credenze, gli usi ed i costumi abruzzesi ricorda che alle sorgenti di questo fiume i Marsi celebravano l'antichissima loro festa annuale in onore di Marte Pico dio nazionale della schiatta sabellica, dio dell'agricoltura e della guerra. Da questo Dio il fonte prendeva il nome di Piconio ed in memoria dell'origine dei Marsi dalle sacre primavere guidate da Marte Pico, sotto forma di bue, il fiume aveva ed ha il nome di Giovenco. I marsi agricoltori e guerrieri famosissimi si riunivano per una notte ed un giorno, nel mese in cui maturano le messi intorno alle scaturigini di questo fiume. Cantavano, danzavano, saltavano intorno ai grandi fuochi. All'albeggiare con religioso raccoglimento prendevano addosso la rugiada, per essere preservati da qualunque male, e quei che erano affetti da rogna si lavavano in quell'acqua. In questa nazionale solennità si sanzionavano gli affetti di famiglia e di patria. Terminati i riti religiosi sedevano a cordiale e pubblico banchetto. Ancora sul principio del secolo gli abitanti di Pescina, Ortona dei Marsi, Bisegna e frazioni passavano la notte dal 23 al 24 giugno alle sorgenti del Giovenco e la mattina si lavavano alle sue acque. Non diversamente dai Greci, osserva Giovanni Pansa, che immaginavano di vedere nell'acqua che scorre tortuosamente nelle viscere della terra le spire del serpente gli abitatori della regione accanto al Fucino vedevano nel fiume Pitonium, che immetteva le sue acque nel lago, l'immagine del serpente le cui spire erano rappresentate dai meandri tortuosi per i quali il fiume scorreva precipitando nell'abisso. La favola divulgò che il fiume Pitonio, oggi Giovenco, verecondo tributario del Fucina lambisse, con celerità, la sua soprafaccia ed uscisse intatto dalla sponda opposta. Secondo l'Orlandi il primo a parlare di questo fiume sarebbe stato il poeta alessandrino Licofronte che nella sua " Cassandra " così lo ricorda: " Phorcique Marsicilacus latices / Pitoniumque flumen sub terra / sese condens in obscuras specus profonditatis ". E per il suo scorrere in antri sotterranei a guisa di dragone fu detto la Dragonaria, nome che ancora oggi si ritrova in una contrada del Comune di Bisegna, dove ha le sue sorgenti il fiume. Ritenevano gli scrittori romani e primissimo Plinio, insigne naturalista, che le acque di questo fiume per la loro leggerezza passassero, senza mescolarvisi, su quelle del Fucino ed andassero presso Tivoli a sprofondarsi in uno speco e di lì alimentassero l'acquedotto romano dell'Acqua Marcia, che a causa della sua freschezza e salubrità veniva considerata come un dono degli dei: " dulces inter se supermanent alias ut in Fucino lacu Invenetus anmis ". Padre Arduino nel ricordare questa espressione faceva noto che lo stesso Plinio aveva chiamato, in altra sede, questo fiume Piconio o Pitonio così come, e lo abbiamo già ricordato, aveva fatto Licofronte. La stessa cosa fu ripetuta da Vibio Sequestro il quale però corrompe il nome che da Pitonio diventa Pitornio: " Pitomius qui per medium lacum Fucinum ita decurrit ut aquae non misceantur Stagno ". Il fatto che anche Strabone ripetesse ad un dipresso un'opinione del genere dimostra che la tradizione si era conservata attraverso i secoli nell'ambito dei popolo marso. In una carta geografica della Diocesi dei Marsi del seicento questo fiume è ricordato con il nome di Pitornius.
I centri abitati -
Attorno ad Ortona dei Marsi che ne è capoluogo, gravitano vari centri: RIVOLI - COLLECAVALLO sui resti di Milionia con 32 abitanti; CESOLI, con 176 abitanti e con una chiesa parrocchiale dedicata al Sacro Cuore di Gesù, ebbe, nel passato, stando alla bolla di Clemente III, la chiesa di S. Tommaso; FONTE GIUSTA prossima ad estinguersi perché non resta che una soltanto delle quattro famiglie che vi vivevano negli scorsi anni; SANTA MARIA MADDALENA un tempo Vado-Albone che, per i suoi 133 abitanti ha voluto arricchirsi di una chiesa dedicata all'Immacolata Concezione e che serba memoria del soggiorno che vi fece il generale Borjes, proveniente da Fratturo e diretto negli Stati Pontifici che, come è noto, non poté raggiungere per- ché catturato venne fucilato l'8 dicembre 1861 a Tagliacozzo. Questo centro ebbe un tempo una chiesa dedicata a S. Felice; SULLA VILLA già Fumegna e Madonna della Villa, come da una carta geografica della diocesi dei Marsi del 1735, i cui 57 abitanti possono vantare una chiesa dedicata alla Madonna dell'Assunta, meta di pellegrini, sorta là dove la Madonna che veniva dall'Oriente, secondo alcuni, da Villalago secondo altri, volle fermarsi. Nel 1524 la chiesa di S. M. di Fumegna ritraeva " beneficio " dal figlio di Antonio Sanfelice e rendeva al monastero di S. Pietro del Lago (dovrebbe trattarsi di Villalago confinante propria con Sulla Villa) un ducato all'anno nonostante che il Sanfelice, fin dal 1508, non versasse più il canone. Nel 1613 questa chiesa con i suoi beni, di una certa entità, figura unita al Seminario di Pescina. Altro centro è il CASALOTTO, con quattro famiglie sito lungo la provinciale Bisegna-Ortana dei Marsi. ASCHI a 1139 metri sul mare che porta nel suo stemma tre stelle d'argento in campo azzurro è qualcosa di più di una frazione. Dei mille abitanti, alla vigilia del terremoto dei 13 gennaio 1915, non ne rimasero che trecento. Gli altri furono trovati cadaveri sotto le macerie delle case distrutte dall'immane flagello. Molti dei superstiti preferirono trasferirsi, in maniera definitiva, in località Casali di Aschi ove possedevano terreni e fabbricati sparsi in diversi centri denominati " le Grippe ", " S. Veneziano ", " le Grette " e che prima del terremoto costituivano il soggiorno invernale, per trovarsi sulle rive del lago di Fucino, degli abitanti di Aschi allora detto Alto. E così, mentre oggi questo centro conta oltre 300 abitanti, i Casali di Aschi che, nel 1948 vennero aggregati al Comune di Gioia dei Marsi da cui distano appena un chilometro, hanno una popolazione di oltre 1000 abitanti con Parrocchia, scuole elementari, asilo infantile " in loco ".
Aschi è allacciata da una strada panoramica a Venere di Pescina ed alla provinciale Pescasseroli - Bisegna - Ortona dei Marsi - Pescina. E' centro agricolo-pastorale importante: sulle pendici vengono coltivati grano, granoturco, patate, vigne che producono ottimo vino.
Il nome di Aschi ha eccitato la fantasia e le ricerche di storici circa la sua origine: deriva da Asilum da Asciculum da Aculum da Aschium da Asimio? Oppure come scrive F. Terra (" Sopra il diletto, la importanza e la necessità di una Storia dei Marsi ") con etimologia tratta dalla lingua ebraica da " Esh-Ki pignatta di fuoco, o da Har-Ki fessura di adustione, o da Hasen ed Hascen fumante " forse per le miniere di ferro, di filantrace, legno nericcio e di nafta sallucida trasparente ricordate da diversi geografi? Andrea Di Pietro nella sua opera " Agglomerazioni delle popolazioni attuali della Diocesi dei Marsi " ricorda l'Asilo che i Marsi " avevano stabilito nel loro seno per accrescere il numero della popolazione e che questo Asilo fissato in quel luogo dove si è posteriormente edificato il paese di Aschi, ha dato il nome al medesimo ". In questo Asilo si radunavano i Marsi con il collegio dei sacerdoti feciali per prepararsi alla guerra e per la celebrazione di feste e riti e sacrifici in onore della dea Bellona. Distrutto nel 302 a. C. dai consoli Fulvio Patino e Tito Manlio Torquato i superstiti si rifugiarono nelle località limitrofe all'Asilo denominate Puzzello, Valle-Fredda, Vallo, Vico-Albo, per poi a seguito di eventi diversi, fissarsi in quella località cui venne dato il nome di Aschi. Ricordiamo tra queste, come la più importante, Vico-Albo anch'essa distrutta e riedificata nella sua parte inferiore con il nome di Vico che " rimase disabitato per la peste dell'anno 1656 che distrusse quasi tutti gli abitanti ". I pochi superstiti insieme agli abitanti dell'altro centro denominato Vettorito dopo la metà del sec. XVII si riunirono ad Aschi. Il territorio di Vico è ricordato anche dal Giustiniani nel suo Dizionario geografico del Regno di Napoli come località " raggiungibile attraverso il valico chiamato Farallo pericoloso durante la stagione invernale tanto che il 22 febbraio 1731 vi trovarono la morte ben sette giovanette ". Nel medioevo intorno ad Aschi venne stretta una cinta muraria dalla quale si levavano sette torri: di qualcuna di queste esistono ancora i resti mentre nel 1710 si conservavano due porte che la sera venivano chiuse.
Intorno ad Aschi gravitavano diversi castelli poi distrutti: Apamea, Altrano, Bozzano, Sant'Anzio: nel medioevo furono aggregati a detto centro territori di paesi vicini quali S. Leonardo, S. Maria Valfreda e S. Nicola e dei quali oggi non restano che avanzi di ruderi.
Nel 1173 Aschi, come ricorda l'Antinori, era feudo di Rainaldo, conte di Celano, per la tassa di un soldato a cavallo e con una popolazione di ventiquattro capi di famiglia. Con il suo antico nome di Ascilum è ricordata nella balla di Clemente III al Vescovo Eliano. Viene ricordato nel 1411 tal Niccolò d'Aschi possessore di feudi. Il Vescovo Maccafani che resse la diocesi dei Marsi dal 1446 provvide ad unificare i beni ecclesiastici di proprietà delle varie popolazioni riunite ad Aschi creando con questi la Parrocchia dei SS. Salvatore con a capo un arciprete, parrocchia tuttora esistente. La bella Chiesa dedicata al suo protettore venne distrutta dal terremoto ricordato del 1915: al suo posto ne è stata costruita una nuova che conserva una preziosa statua lignea del SS. Salvatore.
Antonio Piccolomini, barone di Pescina fu nel 1464 Signore di Aschi titolo che gli venne conservato nel 1484 dal Re.
Nel XV secolo nelle sanguinose lotte tra gli Orsini ed il Colonna, che ebbero vasta eco nella Marsica ove le due famiglie possedevano estesi feudi, Aschi parteggiò per i Colonna e nell'anno 1442 Fabrizio Colonna per ricompensare gli abilissimi e coraggiosi frombolieri di Aschi che per lui si erano battuti, concesse agli aschiesi il privilegio del pascolo senza pernottamento della città di Marsia e del castello di Venere.
Questo paese contava nel 1601 fuochi 95, 129 nel 1618, 95 nel 1640, 129 nel 1648, 86 nel 1699, 129 nel 1671 e 412 nel 1712: per ciascun fuoco pagava alla Real Corte somme per " l'ordinario e per lo straordinario, per la fanteria spagnuola, per la gente d'armi, per la riparazione delle strade, per il bargello di campagna e per la guardia alle torri " sopra ricordate.
Nel 1591 Alfonso Piccolomini vendette la contea di Celano a donna Camilla Peretti e dall'atto relativo si rileva che Aschio pagava annualmente per la colletta di S. Maria Assunta trenta ducati mentre per la balia, per la cera di Vico e per l'adoho pagava ducati sette.
Nel 1597 contava 500 abitanti che coltivavano grano, orzo e producevano anche olio da oliveti siti nei casali di Aschio di Vico dato che il lago di Fucina esercitava un'azione termoregolatrice sul clima tanto che dopo il prosciugamento la pianta di olivo è scomparsa. Oggi Aschi conta 295 abitanti.
Ed ora una breve cronaca delle vicende amministrative di questo centro che, pur avendo tenacemente aspirato alla sua autonomia, è rimasto legato al Comune di Ortona dei Marsi. Con la legge sulla circoscrizione del 19 gennaio 1807 n. 14 furono aggregati a Pescina, tra gli altri paesi, Ortona ed Aschi che, successivamente, con atto dell'Intendenza di Aquila del 26 gennaio 1811 n. 186 formarono comune autonomo.
In data 26 luglio 1827 il Sottoindentente di Avezzano " circondato ed assordato faceva noto all'intendente di Aquila che Aschi con una popolazione di oltre seicento anime, distante da Ortona un miglio e mezzo di pessima strada, intersecata dal fiume Giovenco precipitoso senza ponte implorava la separazione da Ortona ".
" Gli abitanti di Aschi, è detto nella ricordata comunicazione, per la rigidezza del clima, guidati da necessità, da tempo immemorabile cercarono un ricovero al di là delle montagne verso il Fucino e scesero nelle campagne sottoposte, ove si applicarono a dissodare dei fondi, ed arricchirli di piantagioni, e vi edificarono case rurali che riunite in vari punti costituirono molti Casali, che pervennero quasi a mutuo contatto per gli edifizii che si moltiplicarono. Tale nascente comune ebbe il nome di Vico che periodicamente accoglie la popolazione di Aschi in ciascun anno nella metà di settembre fino alle spirare di maggio... Aschi ha una rendita, senza tasse, di 604 ducati. Potrebbe ottenere inoltre altre risorse dalle privative, dai macelli, forni di pane a vendere, osteria, pizzicheria. Ha un sufficiente numero di eleggibili alle cariche comunali. E per queste ragioni e per non potere avere Aschi, per otto mesi all'anno, contatto né con Ortona né con Bisegna né con San Sebastiano si invoca la clemenza di S. M. ad accordargli un'amministrazione separata. Un'amministrazione che possa seco condurre in Vico. Difatti i pubblici rappresentanti, le Autorità debbono seguire la popolazione per regolarne gli interessi, amministrare la Giustizia loro dovuta e per vegliare alla tutela dell'ordine pubblico ".
Al Sottoindentente fanno seguito suppliche di cittadini di Aschi, con argomentazione diverse ma tutte intese a raggiungere lo scopo. Il 13 agosto e 7 settembre 1827 i Decurioni Carlo Di Silvio, Gio: Cristomone De Joris e l'aggiunto all'Eletto Venanzio Taglieri chiedevano l'autonomia per i seguenti motivi: " tasse male applicate, oppressioni sofferte nella divisione dei demani, capricciosa classificazione per il dazio sul macino, insulti e minacce fino in pubblico Decurionato, mancanza di acqua, ingiustizie relativamente alle leve, all'esazione fondiaria e specialmente dei beni comuni, le rendite sufficienti derivanti dai pascoli che da una saggia ed immemorabile economia amministrativa si trovano dedicati all'industria pastorale dei propri abitanti e nel caso venisse essa a cessare potrebbe comodamente investirsene l'uso destinando a pascolo degli animali Censuari di Puglia ". Si faceva altresì noto al Ministero degli Affari Interni che Aschi " ha una rendita di 193,85 docati derivanti da pascoli per docati 10:50, da forni per docati 73:00, e da canoni per docati 68:65 ".
Ma allorquando l'Eletto Venanzio Taglieri venne a conoscenza che il Consiglio di Intendenza di Aquila aveva espresso il parere di aggregare Aschi al Comune di Gioia dei Marsi così scrisse in data 5 novembre 1927 all'Intendente dell'Aquila:
" …il solo sospetto ci aveva intimoriti ed ora tal decisione ci ha in profonda costernazione, avendo molto a piangere i mali sofferti da Ortona, senza bisogno di soffrirne dei peggiori sotto Gioia. Sono ben note le qualità dei naturali e dell'amministrazione di Gioia e questo Comune di Aschi per la disgraziata circostanza di esservi limitrofo, ne ha sofferto e soffre i duri effetti. Usurpazioni di terreni dei privati e del demanio comunale, capricciosa linea di demarcazione tirata in Vico Casale di Aschi per indurci alla disperazione per la prossimità della medesima alle nostre abitazioni ". E conclude, dopo aver numerato altri motivi, chiedendo ancora che Aschi sia Comune autonomo. Le cose sono rimaste come allora: soltanto nel 1896 il Sindaco dell'epoca provvide a far revocare il decreto con il quale Aschi veniva aggregato a Gioia dei Marsi, così come nel 1929, il Podestà, nonostante il parere dell'Amministrazione provinciale dell'Aquila, riuscì a non far varare il provvedimento. Nel 1948 i Casali di Aschi venivano aggregati al Comune di Gioia dei Marsi, pare con il parere favorevole dell'Amministrazione comunale di Ortona dei Marsi.
CARRITO 358 abitanti, scalo ferroviario sulla linea Roma-Pescara è articolato in una parte alta, la più vecchia, ed in una parte bassa, la moderna con ridenti costruzioni e con i centri di Verminesca, Castiglione e Casali.
Sembra che abbia derivato il suo nome dall'essere stata una stazione di deposito di carri dell'arteria della secondaria Via Valeria che da Marruvium, raggiunta Milonia, portava, dopo il monte Imeo (Forca) a Corfinium capitale dei Peligni; o da Karith e Kerit prominenza, sporgenza orizzontale in una superficie piana. Un suo pugnace ed ardimentoso figlio Anicio, insieme con il nobile Enrico de Enricis ed i suoi figli, nonché Rinaldo Lancialunga, detto Paplino da Trasacco fu nel 1411 capo della sollevazione contro Ladislao re di Napoli, a favore di Luigi XI: ma dalla regina Giovanna, nel 1419, tutti costoro furono dichiarati rei di " perduellione " ossia nemici della patria con la confisca dei beni e la proscrizione. Nell'agro di Carrito fu rinvenuta nel 1884 un'ampolla per la custodia dell'acqua lustrale.
Carrito Alta che dalla bolla di Pasquale II venne indicata quale termine della diocesi dei Marsi e che nel secolo XII aveva la Chiesa di S. Niccolò, di S. Andrea e di S. Jacobe, possiede oggi la vetusta chiesa dedicata a S. Nicola ed alla beatissima Vergine della Pietà. Nel 1774 fu al centro di una contestazione perché il rev. don Pietro Colantoni di Pescina voleva farla passare non già come tempio che esigesse, per la cura delle anime, la presenza stabile del parroco ma come una cappellania di giuspatronato dei marchesi Massimi. L'Università si oppose ed ebbe causa vinta. Carrito bassa ha provveduto alla costruzione di una propria chiesa dedicata sempre a S. Nicola ed alla beatissima Vergine della Pietà ad iniziativa e per interessamento del defunto parroco don Luigi Ciofani. Attaccata alla Chiesa è stata costruita la casa canonica. I Santi ricordati ab antiquo venivano festeggiati nella terza domenica di maggio, ma da qualche anno la data è stata spostata alla terza domenica di agosto.